30 luglio – 11 agosto 1996

Caro Livio,

qualche tempo fa, mentre stavamo chiacchierando in un’osteria nei pressi del tuo studio, tu, non mi ricordo a che proposito, a un certo punto, rivolgendoti a me ma anche al bicchiere che avevi davanti a te stesso, hai detto:” e da questo momento può succedere di tutto”. Veramente l’hai detto in triestino, con quella famigliarità col destino, con l’assurdo e con l’imperscrutabile che solo il dialetto natìo può esprimere. Non ho mai dimenticato quella frase o meglio il modo in cui tu l’hai detta, il tuo sguardo assorto, pieno di disincantata fraternità per il mondo.

Quelle parole, dette ovviamente da te senza alcuna pretesa sentenziosa, non erano certo, di per sé, niente di originale, perché sappiamo bene che sempre può succedere di tutto e che, come dice il vecchio proverbio ebraico, il mondo può essere distrutto fra la sera e il mattino. Ma la poesia – la poesia delle opere d’arte, ma anche quella creata con i gesti autentici della vita – non consiste in trovate eccentriche o eclatanti, bensì nell’intensità con la quale essa ci fa improvvisamente vedere o sentire ciò che avevamo sotto gli occhi ma di cui non ci eravamo veramente accorti; così, dopo Sera di febbraio di Saba, guardiamo e percepiamo in altro modo il giorno che cala, il trascolorare delle ore.

Da quella volta, grazie al tuo gesto e alle tue parole buttate lì senza farci troppo caso, io so veramente – con spontanea immediatezza, direi fisicamente, e non solo con l’ovvia consapevolezza intellettuale – che tutto può accadere, che la promiscuità di tragedia, felicità, banalità e squallore, descritta nelle pagine della letteratura mondiale e vissuta cronaca quotidiana dell’universo, aspetta fuori dalla mia porta, come la fila della gente davanti allo sportello d’un ufficio.

Ma la tua tranquillità, quella indomita e bonaria dimestichezza con la sfinge che c’era nel tuo gesto, mi insegna a non aver timore di quell’incertezza incombente, a non prendere neanche con troppa gravità il destino e a dirgli di non darsi troppe arie; mi aiuta dunque a vivere. La tua pittura è, fra tante cose, anche quel gesto, innalzato al piano di un’intesa, splendida arte. I tuoi quadri hanno quella simbiosi di fede e disincanto che contrassegna la vera poesia, quella che non interessa soltanto le classificazioni critiche, ma arricchisce la vita e finisce per farne tutt’uno con essa. Disincanto, perché nei tuoi caffè e nelle tue osterie, nei tuoi vetri o specchi appannati, nei tuoi personaggi solitari e silenziosi, nei tuoi vecchi malinconici e abbandonati, che affondano come ombre nell’ombra, nei tuoi muri screpolati, nello sguardo delle tue creature, c’è tutta l’esperienza del dolore e della solitudine, la coscienza del finale della partita, il naufragio e l’abbandono che l’esistenza ci riserva, il nulla che ci circonda.

Fede, perché in ogni dettaglio anche desolato che il tuo pennello fissa sulla tela c’è un tenace e indistruttibile amore per gli uomini; l’amorosa umiltà di chi condivide sino in fondo il destino di tutti e trova in questa partecipe fraternità il senso stesso della vita e la discreta, sommessa ma incancellabile forza di guardare in faccia la sua pena e di sopportarla.

Un umile ma anche sanguigna e picaresca umanità, che c’è anche nelle bellissime pagine della tua Feldpost 15843, che fanno di te, nell’incisiva schiettezza della testimonianza della nostra tragica storia, un intenso scrittore: penso – per fare solo un esempio fra i tanti – a quell’indimenticabile momento in cui tu, nel campo di lavoro tedesco nel quale sei prigioniero per esserti ribellato alla chiamata del Leviatano, e naturalmente non hai certo l’intenzione di lavorare per la grandezza del Reich, per un attimo, colpito dal dolore del soldato tedesco, che è il tuo sorvegliante – nemico ma ha appena perso sotto le bombe la sua famiglia, ti metti – per la prima volta – a scavare più forte nella buca, simile a quella in cui immagini siano sepolti i suoi. Caro Livio, come sai non ho né la possibilità né la capacità di scrivere uno studio critico sulla tua pittura, che sento così intensa e vicina.

Ti posso solo dire grazie per la tua pittura, per quei caffè e osterie nei quali mi sento di casa anch’io e che sono il nostro Teatro del Mondo, la sballottata ma accogliente arca di Noè, che forse non ci salverà dal diluvio ma ci permette di amare i compagni di viaggio, di fare qualche partita di coteccio e bere qualche buona bottiglia. Sarei felice se un giorno si dicesse di un mio libro ciò che Carlo Ulcigrai, in una straordinaria pagina, ha detto del tuo quadro: “una semplice frase senza nulla di angoscioso: un messaggio lasciato là ai piedi del cavalletto, un “torno subito” indirizzato alla Parca.

Claudio Magris