Universalmente approvata la constatazione come i nostro giorni vedano il crollo della perizia manuale nel campo disegnativi. Vige la pervicace volontà di scavalcare la fase preparatoria dell’ abbozzo a matita, a carboncino, a penna, passando subito alla sinfonia variegata del colore, al messaggio oggetto concluso. Tutto ciò rappresenta un diffuso impoverimento tecnico culturale: magari determinato dal facile successo di composizioni schematiche che hanno finito con il relegare in un angolo l’arte difficile del disegno. Così non solo non so disegna più, ma nessuno organizza mostre di disegni.

Crisi espressiva che fortunatamente trova, un disegnatore imperterrito, un virtuoso per certi versi stupefacente, come il pittore Livio Rosignano. Ora presenta un’ottantina e passa di disegni  < finiti > Produzioni grafiche  compiute: non solo piani, modelli di là da venire, tentativi, frammenti, appunti di studi. Ogni foglio invece si configura come opera d’arte felicemente portata a termine, negli scatti fantastici, nel tessuto fitto dei segni tracciati a penna. Testimonianze, prove che si costituiscono come specchio inconfutabile della prorompente personalità artistica di Livio Rosignano.

Con questi disegni – quadri ancora una volta il pittore si assume il compito di accompagnarsi nei ” santuari” della sua, della nostra, Trieste. Si dimentichino gli squallidi luoghi della saga di un buio, ambiguo. Mississipi, come esce dalle pagine di Sanctuary, il romanzo di Faulker, “intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco”; per passare a più respirabili atmosfere:quelle delle pagine di Italo Svevo o di Fulvio Tomizza della città di Miriam. Ed ecco la serie dei segni di Rosignano dedicati ai caffè storici, il ” Ssn Marco ” e il ” Tommaseo “: per passare agli anonimi baretti – e li pulsa ancora il cuore di una Trieste più vera; infine l’attesa della modella le cui carni rabbrividiscono nello studio dove ls bora filtra dalla vetrata sconnessa.

Sarebbe il caso, a questo punto, di concludere citando qualche aulico poeta. Diciamo Holderlin, vissuto recluso quasi quarant’anni in una torre, oppresso da dolce follia, componendo versi, che ritenendoli minori firmava con lo pseudonimo italianeggiante Scaldarelli. A questo poeta capitò di paragonare le sponde rocciose dello stretto di Corinto a una sorta di mensa sulla quale gli  dei dell’Olimpo scendevano a banchettare: dalla ciclopica tavola imbandita cadevano briciole d’oro. Sarebbe agevole avvicinare i fogli di Rosignano a frammenti dorati staccatisi dal lingotto di metallo puro della sua pittura. Proseguire con la medesima chiave orfica, rievocando  lenti magiche spiragli meravigliosi aperti sul vero e sull’anima; fantasticare dell’artista avvolto in un mantello incantato mentre viaggia volando attraverso l’aria tormentosa di Trieste, mai sazio di esplorare, di scoprire, di mirare estatico il mondo e il cuore della gente. Il risultato di queste alchimie verbali, di questi giochi di artificio letterario, magari potrebbero risultare appagati.

Preferisco, invece, terminare in modo sommesso, con una testimonianza. Gli anni quaranta correvano verso la loro conclusione. Il mio povero paoà lavorava in una ditta di spedizione. Sapendomi già allora interessato all’arte – germe che mi aveva attaccato lui portandomi sempre al Revoltella – mi ripetè più volte; “Dovresti vedere un ragazzo che lavora con me come disegna bene” Quel giovane era Livio Rosignano, la frase di mio padre, cinquant’anni dopo, non ha perso la sua verità.

Sergio Brossi