Sergio Brossi
16 febbraio 1995
Non si fosse fatta sera, all’improvviso, lo scorso dicembre, per Libero Mazzi, queste righe le avrebbe firmate di certo lui. Il titolo era già trovato: Rosignano al femminile. Livio Rosignano si afferma in genere pittore con il “cappello di feltro”; non per allinearsi alla fama consacrata dai media di Josephe Beuys; ma perchè soggetto dei suoi quadri sono gruppi di amici, i loro ritratti; non è mancato di commentarsi con l’autoritratto ( e in questo caso il cappello è d’obbligo). Negli ultimi mesi si può dire abbia rovesciato lo specchio (lo specchio con la sua realtà virtuale appare motivo ricorrente di molti suoi quadri) per proporci la versione al femminile della sua pittura.
Sono nati così i ritratti di donne di Livio Rosignano. Di ognuna ha saputo raccontarci la vita, ne ha colto sensibilità, concentrazione spirituale, coraggio, intelligenza, brio (il mitico morbin delle mule triestine) e infine i sogni più riposti dell’anima. Il risultato una straordinaria, non imitabile da alcuno, galleria di protagoniste.
Le misure dei quadri concordano ma a nessuno salterebbe in mente di parlare di opere nate in serie, pure se i formati coincidono. Come note musicali sul pentagramma se ne avverte, addirittura esaltata, la differenza. Si portano dietro caratteri differenti ed età: la ragazzina, la donna nel pieno fiorire, “angelica la bella” e la donna che sta raggiungendo la maturità.
Una delle note distinte della pittura di Rosignano si può individuare nel lirico elogio della solitudine. Queste donne però appaiono isolate per un mero fatto tecnico legato al linguaggio del ritratto, così come ci viene testimoniato da secoli e secoli di storia dell’arte.
Fate attenzione al loro atteggiamento, al volto, alle mani, alle gambe accavallate…Agli sfondi pittorici, dietro a una senti turbinare la bora. Appaiono in procinto di levarsi dalla sedia per raggiungere i loro cari o ad an
dare fare qualche cosa che le riporti in mezzo alla vita, lontano dallo studio del pittore, dove, del resto, hanno sostato poco (si sa quanto sia rapida la pittura di Rosignano: o va o non va). E riconosciamo l’imprenditrice, la donna medico, farmacista, quella attenta ai palpiti del cuore e quella al centro della famiglia e della casa.
A Francis Bacon, ritrattista (seguendo Velàzquez) di papa Innocenzo x, capitò di fare il ritratto di Wiston Churcil, statista, come tutti sanno, e pure autore di paesaggi. Ma Lady Clementina, la moglie, distrusse la tela non contenta dei risultati. Dipingere un’intera galleria di ritratti femminili, senza aggredire la grazia, deformare i lineamenti, né concedersi a romantiche piaggerie, poteva farlo e riuscirci solo un pittore autentico come Livio Rosignano.
L’approccio ai soggetti risulta immediato, fresco e felice, lineamenti, pelle, sete, panneggi, e aggiungono anime – speriamo nessuno protesti – nei ritratti, esposti a “Le Caveau”, interpretano realtà, arte e femminilità come sicure reliquie di musicale bellezza.
Sergio Brossi
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6 dicembre 1997
Il Vasari impostò tutto il contenuto teorico delle vite sull’importanza del disegno come base delle espressioni figurali. In proposito scrisse: “Il disegno altro non sia che una apparente (nel senso di evidente, n.d.r.) espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo(…) un giudizio universale (…) un’idea di tutte le cose della natura.” Fedele alle sue convinzioni di conoscitore Vasari raccoglierà soprattutto disegni, riunendoli in cinque grossi tomi destinati a formare il libro dei disegni. Non uscendo dal campo del collezionismo cinquecentesco di prestigio appare impossibile non ricordare l’Aretino quando supplicava Michelangelo perchè gli donasse un disegno uscito dalla “mano sacrosanta (…) una reliquia di quelle carte (…) due disegni di carbone in un foglio”, dichiarando di apprezzare ciò sopra ogni altro dono prezioso.
Universalmente accettata la come i nostri giorni vedano il crollo della perizia manuale del campo disegnativo. Vige la pervicace volontà di scavalcare la fase preparatoria dell’abbozzo a matita, a carboncino, a penna, passando subito alla sinfonia variegata del colore, al messaggio oggetto concluso. Tutto ciò rappresenta un diffuso impoverimento dal facile successo di composizioni schematiche che hanno finito con il relegare in un angolo l’arte difficile del disegno. Così non solo non si disegna più, ma nessuno organizza mostre di disegni.
Crisi espressiva che fortunatamente trova, magari nell’orizzonte casalingo dell’attività artistica triestina, un disegnatore imperterrito, un virtuoso per certi versi stupefacente, come il pittore Livio Rosignano. Ora presenta un’ottantina e passa di disegni “finiti”. Produzioni grafiche compiute; non solo piani, modelli di là da venire, frammenti, appunti di studi. Ogni foglio invece configura come opera d’arte felicemente portata a termine, negli scatti fantastici, nel tessuto fitto dei segni tracciati con la penna. Testimonianze, prove che si costituiscono come specchio inconfutabile della prorompente personalità artistica di Livio Rosignano.
Con questi “disegni-quadri” ancora una volta il pittore si assume il compito di accompagnarci nei “santuari” della sua, della nostra, Trieste. Si dimentichino gli squallidi luoghi della saga di un buio, ambiguo, Mississipi, come esce dalle pagine di Sanctuary, il romanzo di Faulkner, “intrusione nella tragedia greca del romanzo poliziesco”; per passare a più respirabili atmosfere: quelle pagine di Italo Svevo o di Fulvio Tomizza della Città di Miriam. Ed ecco la serie dei disegni di Rosignano dedicati ai caffè storici, il “San Marco” e il “Tommaseo”: per passare agli anonimi baretti dove c’è chi consuma giornate sempre uguali; poi gli scorci della periferia – e lì pulsa ancora il cuore di una Trieste più vera -; infine l’attesa della modella le cui carni rabbrividiscono nello studio dove la bora filtra dalla vetrata sconnessa.
Sarebbe il caso, a questo punto, di concludere citando qualche aulico poeta. Diciamo Hòlderlin, vissuto recluso quasi quarant’ anni in una torre, oppresso da dolce follia, componendo versi, che ritenendoli minori firmava con lo pseudonimo italianeggiante Scardanelli. A questo poeta capitò di paragonare le sponde rocciose dello stretto di Corinto a una sorta di mensa sulla quale gli déi dell’Olimpo scendevano a banchettare; dalla ciclopica tavola imbandita cadevano briciole d’oro.
Sarebbe agevole avvicinare i fogli di Rosignano a frammenti dorati staccatisi dal lingotto di metallo puro della sua pittura.
Proseguire con la medesima chiave orfica, rievocando lenti magiche, spiragli meravigliosi aperti sul vero e sull’anima; fantasticare dell’artista avvolto in un mantello incantato mentre viaggia volando attraverso l’aria tormentosa di Trieste, mai sazio di esplorare, di scoprire, di mirare estatico il mondo e il cuore della gente. Il risultato di queste alchimie verbali, di questi giochi di artificio letterario, magari potrebbero risultare appagati.
Preferisco, invece, terminare in modo sommesso, con una testimonianza. Gli anni Quaranta correvano verso la loro conclusione. Il mio povero papà lavorava in una ditta di spedizioni. Sapendomi già allora interessato all’arte – germe che mi aveva attaccato lui portandomi sempre al Revoltella – mi ripetè più volte: “Dovresti vedere un ragazzo che lavora con me come disegna bene”: Quel giovane impiegato era Livio Rosignano, la frase di mio padre, cinquant’anni dopo, non ha perso la sua verità.
Sergio Brossi
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Un critico famoso consigliava, chi desiderava seguirlo nella sua attività iniziando a scrivere sui fatti dell’arte, di osservare sì attentamente le opere ma di interrogare anche gli autori. V’è poi tutto un filone della critica che cerca equivalenza tra parola scritta ed espressione dipinta: a un quadro di Dante G. Rossetti (pittore inglese dell’ottocento, figlio dell’esule carbonaro Gabriele) corrisponderebbe, senza scarti, una pagina delle “pietre di Venezia” di john Ruskin; o viceversa alla “Nuora” di F. Tozzi farebbe riscontro una tela ispirata al paesaggio fiorentino di Ottone Rosai. Quindi è comprensibile l’interesse degli scritti che escono dalle mani dei pittori. Tra gli artisti triestini quello che più si cimenta con la penna è Livio Rosignano (a esempio è firma che appare spesso sulla “terza” del “ Piccolo”). Negli ultimi giorni del 78 è uscito un agile libretto di ricordi intitolato “Feldpost 15843” nel quale Livio Rosignano ricorda le sue traversie di ragazzo triestino preso nello spietato ingranaggio della guerra. Ricordo pacato, senza odio né recriminazioni, neanche contro quei triestini zelanti servi prima dei nazisti e poi dei comunisti jugoslavi, che lo spedirono in Germania perché al lavoro dell’organizzazione Todt non si fa vedere e alla fine della guerra bloccano a Monfalcone lo sparuto reduce dai campi di concentramento tedeschi nel tentativo di mandarlo a fare la ferrovia Belgrado Sarajevo. Il mondo è visto con gli occhi di un giovanissimo, al quale i suoi, nelle rare lettere che riescono a fargli recapitare, gli dicono che le bancarelle della fiera di San. Nicolò, in viale, si sono ridotte a meno di dieci, ma anche nel futuro pittore degli umili, dei vecchi, della sottile malinconia della periferia triestina.
Universalmente approvata la constatazione come i nostro giorni vedano il crollo della perizia manuale nel campo disegnativi. Vige la pervicace volontà di scavalcare la fase preparatoria dell’ abbozzo a matita, a carboncino, a penna, passando subito alla sinfonia variegata del colore, al messaggio oggetto concluso. Tutto ciò rappresenta un diffuso impoverimento tecnico culturale: magari determinato dal facile successo di composizioni schematiche che hanno finito con il relegare in un angolo l’arte difficile del disegno. Così non solo non so disegna più, ma nessuno organizza mostre di disegni.
Crisi espressiva che fortunatamente trova, un disegnatore imperterrito, un virtuoso per certi versi stupefacente, come il pittore Livio Rosignano. Ora presenta un’ottantina e passa di disegni < finiti > Produzioni grafiche compiute: non solo piani, modelli di là da venire, tentativi, frammenti, appunti di studi. Ogni foglio invece si configura come opera d’arte felicemente portata a termine, negli scatti fantastici, nel tessuto fitto dei segni tracciati a penna. Testimonianze, prove che si costituiscono come specchio inconfutabile della prorompente personalità artistica di Livio Rosignano.
Con questi disegni – quadri ancora una volta il pittore si assume il compito di accompagnarsi nei ” santuari” della sua, della nostra, Trieste. Si dimentichino gli squallidi luoghi della saga di un buio, ambiguo. Mississipi, come esce dalle pagine di Sanctuary, il romanzo di Faulker, “intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco”; per passare a più respirabili atmosfere: quelle delle pagine di Italo Svevo o di Fulvio Tomizza della città di Miriam. Ed ecco la serie dei segni di Rosignano dedicati ai caffè storici, il ” San Marco ” e il ” Tommaseo “: per passare agli anonimi baretti – e li pulsa ancora il cuore di una Trieste più vera; infine l’attesa della modella le cui carni rabbrividiscono nello studio dove ls bora filtra dalla vetrata sconnessa.
Sarebbe il caso, a questo punto, di concludere citando qualche aulico poeta. Diciamo Holderlin, vissuto recluso quasi quarant’anni in una torre, oppresso da dolce follia, componendo versi, che ritenendoli minori firmava con lo pseudonimo italianeggiante Scaldarelli. A questo poeta capitò di paragonare le sponde rocciose dello stretto di Corinto a una sorta di mensa sulla quale gli dei dell’Olimpo scendevano a banchettare: dalla ciclopica tavola imbandita cadevano briciole d’oro. Sarebbe agevole avvicinare i fogli di Rosignano a frammenti dorati staccatisi dal lingotto di metallo puro della sua pittura. Proseguire con la medesima chiave orfica, rievocando lenti magiche spiragli meravigliosi aperti sul vero e sull’anima; fantasticare dell’artista avvolto in un mantello incantato mentre viaggia volando attraverso l’aria tormentosa di Trieste, mai sazio di esplorare, di scoprire, di mirare estatico il mondo e il cuore della gente. Il risultato di queste alchimie verbali, di questi giochi di artificio letterario, magari potrebbero risultare appagati.
Preferisco, invece, terminare in modo sommesso, con una testimonianza. Gli anni quaranta correvano verso la loro conclusione. Il mio povero paoà lavorava in una ditta di spedizione. Sapendomi già allora interessato all’arte – germe che mi aveva attaccato lui portandomi sempre al Revoltella – mi ripetè più volte; “Dovresti vedere un ragazzo che lavora con me come disegna bene” Quel giovane era Livio Rosignano, la frase di mio padre, cinquant’anni dopo, non ha perso la sua verità.
Sergio Brossi