Sergio Molesi
La malinconia delle atmosfere umbratili ed il vitalismo del tocco cromatico nei luoghi, negli eventi e nei ricordi dei recenti, grandi teleri inediti di Livio Rosignano. Come tutti sanno, Livio Rosignano è un artista assai noto, apprezzato dalla critica ed amato dal pubblico, perché, coinvolto e radicato nella modernità, non ha mai rinunciato all’atto fisico del fare pittura anche nei momenti in cui era di moda il concettuale e l’oggettuale e non si è mai staccato da una figurazione riconoscibile (ancorché allusiva) persino quando era di scena l’astrazione aniconica, ma ha portato avanti un suo personale colloquio con l’immagine che ne ha fatto il cantore fervido ed appassionato di un particolare risvolto della temperie culturale e spirituale della nostra città. Negli ultimi trent’ anni, applicandosi a tematiche di impegno sociale, di ambientazione poesistica ed urbana e di memorie personali e collettive, ha messo a punto, e progressivamente affinato ed approfondito, una propria maniera pittorica che, utilizzando i modi operativi dell’impressionismo, era intesa come superamento della pura flagranza percettiva e si collocava tra la forza del sentire e il mistero del memorare nella plaga umbratile di una virile, lucida e commossa malinconia. A tali risultati, che costituiscono una stigmata indelebile del suo operare artistico, Livio Rosignano è pervenuto dopo un percorso stilistico iniziato alla fine degli anni quaranta del secolo scorso e che merita qui ripercorrere brevemente per intendere appieno il senso delle opere esposte in questa mostra. Livio Rosignano ha disegnato da sempre (e conserva ancora il ritratto del padre eseguito a dieci anni di età e il ricordo dell’incoraggiamento a perversare nell’arte avuto dal pittore Giovanni Giordani che fu suo insegnante), ma quando egli cominciò ad apparire sulla scena espositiva, la situazione artistica triestina era in movimento. Nel mentre i vecchi maestri affermatisi tra le due guerre continuavano a portare avanti i modi della tradizione postimpressionistica, novecentesca e persino simbolista e metafisica, si facevano sentire anche nella nostra città gli echi delle novità proposte dal Fronte Nuovo delle Arti nella fatidica Biennale veneziana del 1948. E quando in questo contesto si consumò quasi subito la frattura tra post-cubisti astratto-concreti e neorealisti, gli artisti triestini di poco più anziani si riconobbero, più o meno, nel primo schieramento, mentre i giovanissimi che si aprivano allora all’esperienza dell’arte sentirono il fascino ed il richiamo dell’arte impegnata del neorealismo. Questi ultimi costituirono l’avventurosa bohème triestina dei favolosi anni cinquanta, muovendosi tra il bar Moncenisio, la taverna Murago e le soffitte del centro cittadino dove dipingevano, spesso in gruppo per risparmiare. Livio Rosignano, pur non condividendone appieno l’ideologia, diciamo così, socio-politica e men che meno la poetica neorealista, fu loro vicino in quanto sentiva il bisogno di una maggiore libertà di movimento di contro al raffinato stilismo dei pittori più anziani del versante postcubista. Invece, avendo occasione di frequentare i vecchi maestri Adolfo Levier e Vittorio Bergagna (e da quest’ultimo per un certo periodo fu ospitato nello studio), egli orientò il suo nativo espressionismo nell’ambito del postimpressionismo, ponendo nel contempo attenzione sia al versante vitalisticamente fauve di Levier sia a quello contemplativamente luministico di Bergagna. A partire dal 1950 Livio Rosignano fu a più riprese a Milano (e per un certo periodo condivise lo studio con Marino Sormani) ed ebbe modo di confrontarsi con una situazione artistica complessa ed articolata, sia per gli apporti culturali locali sia per le stimolanti presenze forestiere a livello europeo. Al definitivo ritorno a Trieste l’artista, memore del particolare luminismo chiaroscurale della tradizione lombarda che, per i rami, risaliva fino a Leonardo, abbassò il tono contemplativamente luministico di Bergagna e sciolse il guizzo cromatico fauve di Levier in atmosfere filtranti ed umbratili, nel mentre l’immagine subiva una deformazione di tipo espressionistico sia sul versante vitalistico che su quello di una struggente malinconia. E così Livio Rosignano, come si disse all’inizio, negli ultimi trent’anni ha messo a punto una propria ed originale maniera pittorica che ne ha fatto, come tutta la critica ha concordemente affermato, il cantore fervido ed appassionato di una particolare temperie spirituale della nostra città e l’artista più amato dal pubblico. La mostra presente, intelligentemente e generosamente ospitata nello spazio espositivo del Circolo delle Generali, costituisce un evento eccezionale, e difficilmente ripetibile, in quanto è data possibilità al pubblico di vedere tutte assieme dodici opere inedite di grandi dimensioni eseguite dall’artista negli ultimi quattro anni. In questi vasti ed ampi teleri (e si usa il termine riferito al lavoro di Tintoretto!) L’artista ha modo di conferire una grandiosità coinvolgente alle sue tematiche ed ai suoi modi operativi, fornendo agli spettatori la straordinaria possibilità di immergersi, con immediata partecipazione, nell’affascinante mondo poetico di Livio Rosignano. Sono opere monumentali eseguite con lunga e solenne gestazione sia nello spazio vasto della tela sia nel tempo lento della meditazione e dell’elaborazione. Sono immagini immerse in un tono luministico-chiaroscurale e cromatico basso, castigato e filtrante e l’ambientazione diviene così la visualizzazione delle plaghe segrete della memoria e dell’interiorità psichica, mentre l’improvvisa accensione di un rapido guizzo cromatico si pone come il balenare di un ricordo dall’istinto del profondo psichico o come un improvviso scatto vitalistico nella malinconia dello scorrere lento del tempo. Come tutti sanno, Livio Rosignano sa esprimersi oltre che con l’immagine anche con la parola, in quanto è pure valoroso ed affermato scrittore, saggista e narratore. Egli è capace di rendere icasticamente visibile il narrato verbale e di narrare con la pittura. Questa bella ed importante mostra può essere letta come un racconto, come un personale percorso di elezione dai luoghi, agli eventi e ai ricordi, che, ovviamente, è la storia dell’artista, ma che può essere anche la storia di ognuno. I luoghi del lavoro creativo, delle relazioni sociali e dei rapporti interpersonali confinano con i siti dove albergano il silenzio e la memoria, nella suggestiva contrapposizione tra il trillo degli specchi del caffè e la polvere dell’osteria e tra l’esperienza della solitudine e quella dell’amicizia. Mentre l’obliqua ma esultante potenza della bora scura si risolve nel gagliardo vitalismo dell’uomo che salta le pozzanghere, l’area visione dall’alto e da lontano del Carso in Val Rosandra si rapprende nella concreta evidenza dei primi piani del Carso autunnale. Viene spontaneo allora confrontare la forza selvaggia della natura con il degrado dell’artificio e del consumo che coinvolge nel rifiuto sia le cose che le persone. E dalla considerazione drammatica della tragedia dei rifiutati germina il ricordo angosciante di personali ed antichi patimenti. Questa mostra può essere letta come un racconto o un percorso, ma, come nei cicli di affreschi medievali e rinascimentali, è anzitutto una serie di bellissime immagini che si possono fruire singolarmente (e Livio Rosignano, con generosa intelligenza, ha chiesto a chi scrive di fornire per ogni opera una breve didascalia ) e non sarebbe male che tale funzione divenisse permanente nei luoghi aperti al pubblico di qualche ente o istituzione che abbia a cuore la diffusione dell’arte e della cultura.
Sergio Molesi