Un rinnovato Rosignano, ritornato sensibile interprete di atmosfere e di sensazioni, è in mostra fino a sabato alla galleria “Rettori Trebbio 2”. L’artista, nato vicino a Pola nel 1924, si ripropone al pubblico triestino con una rassegna monotematica, dipinta negli ultimi due anni e dedicata al mare, al cielo e al vento.Due bellissimi oli, ottenuti, come gli altri, attraverso molti passaggi e pazienti velature, sono protagonisti dell’esposizione. Uno, di grandi dimensioni, raccoglie tutta l’immagine di Barcolla – con fastelli di vele lungo l’orizzonte che rammentano la Barcolana – in una prospettiva forte, accesa, azzurra e al tempo stesso calibrata, come se una matura serenità ridasse nuovo slancio e ispirazione all’artista, ben noto per le fascinose atmosfere degli interni dei caffè triestini e delle osterie e per i ritratti.Meno conosciuto, invece, per delle prove pittoriche giovanili, realizzate fra il 1948 e il 1958, in cui il pittore faceva proprio, con un’accezione brillante e quasi fauve, un lessico vicino al neoimpressionismo tedesco, nel descrivere i paesaggi dei dintorni di Trieste, da San Giovanni a Montebello e a Servola, accesi da colori vivacissimi.Il postespressionismo scivolò, quindi, in Rosignano verso la predilezione per Bacon, ultima frangia dell’espressionismo europeo: ed ecco le figure umane straniate e solitarie, immerse o sorprese nella realtà urbana ingrigita e interrotta soltanto da qualche intenso intervento cromatico. Un rapporto tonale che ritroviamo oggi nella mostra triestina, in particolare nella tela che descrive la sacchetta, dove rapide pennellate rosse e arancio rallegrano il silenzio immobile del mare, del cielo e dei gabbiani.Una sequenza di opere di formato minore ripropone con uguale, intensa sensibilità lo stesso tema atmosferico animato da personaggi silenziosi e spesso appartati, che ancora ci fanno pensare a Bacon. Vi incontriamo le molteplici variazioni tonali che travolgono per effetto del vento e della pioggia i nostri squeri, i moli e il lungomare: un incalzare di grigi e di azzurri, appena rischiarati a volte dalle luci dell’alba e del tramonto. Che Rosignano realizza tutti a memoria perché, afferma l’autore, “come è accaduto anche per i ritratti di mio padre e di mia madre, dipinti molti anni dopo la loro scomparsa, solo attraverso il ricordo, traspare la vera essenza di un volto o di un passaggio.

Marianna Acerboni

Livio Rosignano:<< L’arte, estasi e anche medicina>>

Visibili opere dal’ 48 agli anni ’60:

<<Ero giovane e dipingevo tre o quattro volte la stessa tela>>

Spirito brillante e sagace, estroso e razionale al tempo stesso, il pittore triestino Livio Rosignano compie nel 2004 ottant’anni e li festeggia con una mostra personale che s’innaugura oggi a Muggia, in cui presenta quasi una quarantina di oli appartenenti alla sua prima maniera, cromaticamente più accesa. Meno nota della produzione successiva, tale impostazione stilistica si potrebbe definire di ‘ispirazione fauve e s’intreccia con il temperamento impetuoso dell’artista, il cui aspetto più riflessivo si esplica invece nei decenni seguenti, grazie alle marine brumose ed intimiste, ai moli percorsi dalla bora e agli interni di caffè densi d’atmosfera, di pensieri e di stati d’animo: un linguaggio che, pur nella sua assoluta autenticità ed autonomia, condivide l’orientamento del neoimpressionismo di Matisse e Gauguin e dell’ultima frangia dell’espressionismo europeo, rappresentata da Francio Bacon.

Come ci si sente a ottant’anni?

A seconda del momento: a volte meravigliosamente bene come a trenta, a volte sento la mia età. Sono in una condizione felice perché, vado a lavorare ogni giorno volentieri, anche alle sei di mattina: questa è la chiave della felicità>>.

Quindi l’arte come medicina…

<< Si, ma anche come tormento ed estasi. La pittura è anche tormento, però ci sono momenti in cui i sacrifici si riscattano pienamente >>.

Qual è oggi il bilancio della sua vita?

<< Positivo, nonostante gli inizi, in cui ho combattuto con la miseria. Poi, a 19 anni sono stato a Dachau, dove ho imparato a prendere la vita con un certo disincanto, cercando nel contempo di viverla pienamente>>.

Lei ha racentinaio di rassegne personali e circa 300 collettive, ha prodotto moltissime opere, tra cui 15.000 disegni e schizzi. Perché ha scelto di

contato quest’esperienza nel romanzo intitolati <<Una giovane vita>>, che ha scritto nel 93…

<< Non sono uno scrittore ma scrivere mi diverte – a suo tempo mi occupai anche di cronaca e critica d’arte per varie testate – così come mi piace leggere. Talvolta devo obbligarmi a lasciare la lettura perché sono un pittore, la mia vita è il colore, è il pennello… ma è piena di insidie, che fanno diventare dispersivi, generando anche malinconia e notevoli disagi.

Perciò bisogna proseguire lungo la strada che noi abbiamo tracciata nell’intimo

Lei ha al suo attivo un c

esporre in questa mostra le opere degli esordi?

<<Ho rispolverato il periodo che va dagli anni 48 ai 60, che soddisfa il mio istintivo amore per il colore. Allora ero giovane e dipingevo tre o quattro volte la stessa tela, anche da una parte e dall’altra. Per mancanza di mezzi usavo solo il verde, il giallo e il rosso e, accostandovi il nero, componevo tutti i colori>>.

L’accentuato cromatismo che incontriamo in mostra si lega anche alla sua esperienza con i pittori Adolfo Levier, Vittorio Bergagna e Romano Rossigni?

<<Erano tutti coloristi: il primo, cui mi sentivo più vicino per il temperamento esuberante, era un espressionista fauve, il secondo con il quale nei primi anni 50, alla morte di Rossigni, condivisi lo studio – un intimista. L’atelier era molto ben frequentato e ciò fu molto importante per la mia formazione, che avvenne anche grazie alla frequentazione dei corsi di nudo tenuti da Edgardo Sambo al “rivoltella”>>.

Negli anni ’50 e ’60 lei è vissuto a periodi alterni a Milano: con quali esiti?

<<La scuola lombarda m’indusse ad attenuare quella vivacità coloristica che non sempre risultava funzionale alla mia pittura; Gli interni di caffè, un po’umbratili e tristi, nascono appunto intorno al 60, ma non posso soffocare questo desiderio di urlare con il colore, che ogni tanto riaffiora in me. Mentre l’umanità dolente, che traspare ogni tanto nei miei quadri, nasce dalla malinconia che m’instillò mio padre, da cui mi sono liberato solo dopo molto grazie anche a un pizzico di follia.

Marianna Acerboni