Tino Sangiglio
Rosignano, lo specchio, la quotidianità, la malinconia, la poesia
L’occhio dell’artista vale di più di quello del critico? Questo interrogativo spunta ogni volta che ci s’imbatte nelle opere di Livio Rosignano per quella caratteristica così peculiare dell’artista triestino di andare oltre il mero valore fenomenico delle cose per appuntarsi a significati che non appaiono subito evidenti e palmari ma si lasciano appena intravedere, quando non solamente intuire o indovinare, restii come sono a palesarsi in immediate ed effimere epifanie ma disponibili invece ad essere colti solo da un occhio abituato alla bellezza e da una mente aperta alla poesia. Come per un greco antico, la cui cultura era essenzialmente una cultura del vedere la forma che si identificava con la bellezza e quindi con la verità, anche per Riosignano infatti sono l’occhio e il vedere che costituiscono il diapason della conoscenza e che permettono di orientarsi in un mondo pullulante di vibrazioni e di corrispondenze che hanno da essere sbendate e svelate con la più attenta osservazione: davvero vale per Livio Rosignano l’acuta sapienza del detto cinese secondo il quale dove c’è poco da guardare lì c’è molto da osservare.
Rosignano in tal modo trasforma questo mondo in pittura, mettendo a disposizione dello sguardo, prima che dello spirito, la composizione e il significato del reale. Come direbbe Cèzanne, Rosignano “pensa in pittura” e il suo obiettivo finale non è tanto quello di riprodurre ciò che è visibile ma piuttosto di rendere visibile la genesi e l’ontologia delle cose:meglio, del divenire delle cose. L’arte, cioè, di Rosignano non è sollecita a cogliere gli aspetti facili e ordinari della realtà ma ha invece l’ambizione di raggiungere un traguardo ben più difficile e arduo, quello di catturare la realtà nella sua fase di massima concentrazione, prima che i vari dettagli prendano corpo e sostanza, di rimandare l’immagine prima che questa si sciolga e si articoli nella naturale quanto ovvia riproduzione: per dirla con Valéry, insomma, Rosignano dà la sensazione ma senza la noia di comunicarla. ” Pensare in pittura”, dunque, e poi “dipingere la sensazione” in una geniale e personale raffigurazione che rifiuta il comodo e banale superamento della figurazione mediante l’astratto ma punta piuttosto a concretizzare e a organizzare una potenza fantasmatica capace di mantenere vivi gli oggetti, le persone ma anche le loro vibrazioni, i loro palpiti commisti in un impasto appena accennato, riflesso, che freme però in battiti avvertibili e pulsa in scatti nervosi percepibili. Ma sempre in una pittura che non “parla” ad alta voce ma che “suggerisce” le cose da vedere e da meditare.
E’ lo specchio che permette a Rosignano la proiezione mediata della realtà, è lo strumento con il quale costruire il tramite diretto con essa e nello stesso tempo carpire ad essa tutti i suoi prolungamenti polisemantici, ghermire tutti i suoi segreti più gelosamente nascosti e custoditi.
Lo specchio ha sempre rappresentato un’attrazione simbolica ma anche premonitrice e carica d’inconscio e dal suo più immediato rapporto – il viso e lo specchio, l’immagine e lo specchio, l’essere e lo specchio, la realtà e lo specchio dunque – è possibile poi far dipartire ogni altra connessione e relazione tra reale e irreale, tra presenza e parvenza, tra realtà e apparenza, tra corpo e riflesso.
E’ così che nello specchio è possibile scorgere e definire una realtà non nei suoi connotati violenti e disarmonici ma piuttosto nelle sue verità più intime e vere, in uno sdoppiamento, anzi in una allusività che non elude il dolore, la solitudine, l’accoramento e infine la morte incombente ma ne riflette semplicemente le loro proiezioni e il loro peso in un’atmosfera più morbida e meno tesa, dove i sentimenti e le sensazioni più che aggredire vengono fuori appena suggeriti, appena marcati.
Ecco perché le figure di Rosignano sembrano essere quasi assenti, meglio: sembrano quasi non esserci, paiono esserci ma senza voler insistere e dare particolare enfasi alla loro presenza, dando la sensazione di essere momentaneamente assenti: in Rosignano infatti le creature non hanno grande funzione illustrativa o addirittura narrativa ma vogliono pulsioni e moti d’animo, cercare affetti e ripari: in una parola intendono rendere visibili aspetti e pensieri invisibili. Come le creature di Francis Bacon, anche quelle di Rosignano sono lontani e mediati riflessi dell’uomo – , sdoppiamenti spesso trasfigurati e storpiati o anche metamorfosati dell’uomo – immagini sfarinate e sbriciolate che l’inconscio proietta – , ma restano evidenti le tracce del loro passaggio, resta la loro pallida ma netta veronica che testimonia della loro presenza, ora silente ed amara, ora ritratta e impaurita, ora serena e meditativa, ora spavalda e irriguardosa. Dell’uomo rimane la sua assenza ma è un’assenza più eloquente di una presenza, di un urlo, di un gesto, di un abbandono, di un sospiro, di un bacio, di un sussurro.
Ma lo specchio è anche memoria del tempo, deposito del tempo immemorabile. Contiene il tempo scandito in una misura senza tempo. Nello specchio la temporalità è senza distanza, dove tutti i tempi – l’è, il fu che sarà – s’intrecciano in un incontro privo di voluta specificità e di precisi significati e mirano piuttosto a raccontare il lungo, interminabile sgomitolarsi di quella povera e transeunte realtà che è l’uomo, la sua vita, la sua perduta carnalità, le sue ali d’angelo irrimediabilmente cadute, la sua umanità dilaniata e dimidiata. E poiché il tempo e la morte obbediscono ad un medesimo ordine costitutivo – il primo si “discioglie” nella seconda e questa prolunga in sè il primo – ambedue si ritrovano nell’insondabile abisso dello specchio. La morte vi circola quale “luce” di innumeri vite e lo specchio ne diviene l’ideale cornice: gli uomini di Rosignano non sono degli sconsolati sconfitti, dei remissivi vinti di verghiana memoria ma piuttosto la loro ombra, il loro riflesso: un’ombra e un riflesso che già riverberano però una lontananza, un distacco, una distanza che è evanescenza, è evaporazione dell’essere, è quasi morte. E per meglio vederli questi uomini non occorre avvicinarsi ad essi ma, paradossalmente, bisogna allontanarsi da essi: nel mondo degli specchi di Rosignano è come muoversi in una specie di paese di Alice in cui le meraviglie sono le cose dell’arte e l’artista si deve comportare come se avesse davanti a sé la sua immagine riflessa: per andare verso la Regina rossa, l’artista, come Alice, deve allontanarsi da essa, per vedere l’agitato brancolamento dell’uomo deve usare il suo riflesso fino al limite dell’inespresso
Ma è soprattutto la quotidianità che lo specchio evidenzia e cataloga, dove è preponderante la presenza delle cose, degli oggetti più usuali, più consuetudinari della nostra esistenza giacché è nella verità delle cose che si racchiude il tutto – tavoli di botteghe e caffè, fiaschi, botti, vasi, sedie, bicchieri, giornali, cappelli, sportine per la spesa, ombrelli, cappotti, reti di pescatori, panni stesi; tutto però ritrova la sua più costituzionale, eterna poeticità non disgiunta da una vena di sottile, soffusa ironia che Rosignano lascia scivolare leggera e quasi impercettibile. Anche gli oggetti della quotidianità sono adombrati e visti nel loro riflesso, coperti da un velo d’ombra: ma l’ombra, il riflesso anche qui rendono l’occhio più attento, gli permettono di avvertire e di decifrare le sfumature e i significati che altrimenti resterebbero inavvertibili mentre l’inespresso ha maggiori possibilità dell’immagine esplicita di essere eloquente ed intuibile e perfino il silenzio è più espressivo del manifesto e del visibile. Pittore del silenzio, Rosignano esalta una quotidianità in cui le cose, pur essendo quelle trite e comuni che noi viviamo ogni giorno, non appaiono chiaramente ma allusivamente, talora anzi quasi in una sospensione fantastica che le rende ancora più lontane da noi, più avulse dai nostri riti quotidiani; ma se solo si riesce a guardare meglio e più a fondo esse appaiono con nettezza e pregnanza a dirci che ci appartengono, che sono parte di noi, che noi siamo in loro e loro in noi.
Ma nel flusso rosignaneo la materia quotidiana filtrata attraverso lo specchio si sostanzia di una tensione piena di malinconia. Nessuna meraviglia per questo sbocco: da una parte, per secoli nella cultura occidentale la malinconia è stata l’inseparabile compagna degli artisti e dei poeti ed è forse quanto di più specifico contraddistingue le culture dell’Occidente a partire dai Greci; dall’altra, malinconia e specchio si sono richiamati a vicenda in una congiunzione fatale. C’è tutta una ampia tradizione iconografica che associa la malinconia allo specchio: questa congiunzione è esplicita, per esempio, nella Melancholia di Böcklin dove lo specchio s’accampa in posizione preminente e diviene il protagonista dell’insieme, o nell’acquaforte Hasta la muerte dei Caprichos di Goya dove lo specchio impietoso domina la scena e il grottesco sottolinea ancora più drammaticamente, in una sorta di premonizione di morte, la colleganza specchio – malinconia. E’ infatti malinconico lo spirito che vola più di tutti in alto nella intuizione; è malinconico lo spirito che nella solitudine dell’esaltazione è in grado di cogliere il significato della realtà anche dagli aspetti e dalle cose più effimere o strane e inutili. Anche qui ci aiuta la tradizione iconografica: nel Melancolicus di Virgilius Solis il Vecchio ecco alla rinfusa affastellarsi un compasso, un pezzo di colonna, delle pietre; e nella famosissima Malinconia di Dűrer compaiono i più disparati oggetti, anche se collegati con i simboli platonici dei solidi geometrici e con quelli cristiani della scala a pioli e dei chiodi della crocifissione. Così è anche in Rosignano i cui oggetti sono, è ovvio, quelli della contemporaneità ma hanno gli stessi significati: sono gli oggetti emblematici della nostra quotidianità ma visti in maniera insostanziale grazie a quella poesia dell’inespresso e dell’accennato che è una delle caratteristiche portanti dell’arte di Rosignano.
E su tutto aleggia sempre e in continuazione la poesia, su tutto stende il suo scintillante mantello l’affiato lirici di Rosignano che permea ogni più minuto particolare delle sue creazioni. Pittura come poesia e poesia come pittura è per Rosignano un assioma del tutto naturale, verificabile in qualsiasi momento, in qualsiasi frangente dell’ispirazione: la poesia che scorre tra i suoi quadri, che s’insinua tra i suoi personaggi dolenti e malinconici, che penetra nelle atmosfere degli ambienti e li satura della sua essenza, che s’infiltra persino tra le cose e gli oggetti animandoli ancora di più e rendendoli quasi esseri dotati di vita e di pulsioni. E i colori di Rosignano assecondano meravigliosamente quest’aura di poesia che alita ineffabile ma quasi prensile nelle sue opere: colori mai violenti o accesi ma attenuati secondo le intonazioni dell’animo, morbidi e silenziosi ad accompagnare le intermittenze del cuore, taglienti ed eloquenti a significare lo sdegno e l’amarezza, impertinenti e svagati a scandire gli scatti dell’ironia e dell’umorismo, effusi e stemperati nelle visioni della desolazione e dell’accoramento: ecco tra i grumi biaccosi scattare improvvisi i rari avvampi di rosso intenso, i grigi e i teneri verdi tenere campo, le pallide ocre e i morbidi marroni diffondersi silenziosamente, gli inconsueti azzurrini scoppiare in fraseggi tenui e musicali, i rosa e i gialli affrescare i fondali, le tonalità nerastre distendersi in ombre minacciose e turgide. La poesia chiude così, simbolicamente, e sigilla l’esperienza artistica di Livio Rosignano per lasciarla e tramandarla a memoria e a testimonianza per il mondo che verrà: specchio, quotidianità, malinconia si allacciano e si esaltano in quella forma superiore della bellezza che è la poesia. E torniamo così al punto dal quale siamo partiti, all’idea dei Greci di racchiudere in maniera rigorosa e inseparabile nella bellezza / poesia la bonrà / verità che Livio Rosignano invera con coraggio e con coerenza in tempi di corrosiva dissipazione; e sancisce, come aveva intuito il nostro antenato Platone, che la bellezza / poesia può essere percepita anche con i sensi e poi acclarata e resa visibile nella pittura, come un tralucere dell’ intelleggibile nel sensibile. Le tele di Livio Rosignano ne sono una manifestazione di rara intensità, un’epifania di sorprendente attualità, condotte all’insegna della più alta e rigorosa moralità.
Tino Sangiglio