Avevamo un amico in comune, Livio Rosignano e io, purtroppo scomparso troppo presto: si chiamava Carlo Ulcigrai ed era un intellettuale a tutto campo, con interessi che spaziavano dalla letteratura al cinema, dalla sociologia alla politica. Fu Carlo il primo che mi portò, tanti anni fa, nello studio dell’artista, ma non per ammirare i suoi quadri: o non principalmente per quello. Ero venuto a Trieste con l’incarico di scrivere un articolo sulla città e avevo chiesto lumi a Ulcigrai, che caldamente raccomandò: “Devi sentire Rosignano”. Confesso che nei miei saltuari rapporti con l’ambiente artistico sono stato spesso tentato di dar ragione a Umberto Saba, il quale sull’intelligenza dei pittori non si faceva illusioni considerandola confinata nelle mani. Perciò l’invito a “parlare” con un praticante di tele e colori, sia pure di livello straordinario (come percepii sul posto, sbirciando i lavori in corso), mi suonò bizzarro. E invece appena cominciammo a dialogare, seduti fra le tele ancora fresche di vernice o addirittura incompiute, mi resi conto di avere di fronte non solo un talento, ma una coscienza. Donde la parafrasi che traspare dal titolo del presente piccolo omaggio. Coscienza (cito dal Palazzi – Folena) vuol dire molte cose tra le quali: “sistema di valori morali di una persona che gli permette di approvare o disapprovare i propri atti e quelli degli altri…”. Operare secondo coscienza significa perseguire valori non effimeri, situarsi fuori dalla contingenza, rischiare un perenne conflitto con le idee correnti. Tutti parametri che definiscono perfettamente l’area in cui si muove il lavoro di Rosignano. E’ difficile trovare nel panorama dell’arte europea contemporanea un artista che ha rispecchiato con altrettanta dedizione e coerenza la natura profonda del luogo in cui ha operato. Instancabile ritrattista della triestinità, cose, ambienti, persone, Rosignano ha realizzato con estrema semplicità e naturalezza il corrispettivo illustrato della grande letteratura di questo lembo di terra dal momento in cui da austroungarica stava diventando italiana. Nell’ormai lunga galleria delle creazioni di Livio si riconoscono l’anima in tormento di Slataper, lo scandaglio psicoanalitico di Svevo, l’afflato poetico di Saba. Di questi e altri scrittori nostrani, il maestro propone, senza riferimenti diretti, una sorta di errabonda trasposizione visiva fermando sulla tela o sul foglio le bellezze di mare e di contrada, i caffè, le osterie, le vele bianche sul golfo, la bora, i grembani e le stente fioriture del Carso, la folla di personaggi dalla quale emergono non di rado drammatici, o addirittura tragici, i primi piani dei protagonisti di una virtuale “commedia tergestina”. Alternativamente, la tavolozza si accende festosa o si annuvola nel caligo, proprio come la gioia di esistere ogni tanto strapiomba nella depressione. In Rosignano la natura si esprime in un linguaggio più schietto e inequivocabile rispetto a quello di noi esseri umani; e nella sua pittura ciò che è immensamente grande, fino a sfiorare l’inesprimibile, coesiste con l’immensamente piccolo. Su un versante sfioriamo la nebulosa che avvolge il mistero dell’esistenza, sull’altro guardiamo sbocciare i “fiori gialli senza nome” ai quali Livio ha intitolato un suo libretto. Aveva ragione Ulcigrai quando mi raccomandò: “Devi sentire Rosignano”. Da allora i suoi quadri hanno continuato a parlarmi in chiave di emozionata consanguineità, proponendosi come riflessi del mio “interno paese straniero” (secondo la definizione di Freud) o come scenari della memoria. E ogni volta, nel contemplarli, mi torna in mente la frase che sentii dalla viva voce di Roberto Rossellini: “Uno deve guardare e avere l’umiltà di dire le cose che vede”. E non è proprio quello che ha sempre fatto, e continua a fare, Livio Rosignano?

Tullio Kezich.