Lo studio di Livio Rosignano è un’arca sospesa ai piani alti della centrale via Geppa, a Trieste, dove l’artista elabora e realizza, il più delle volte in tempi susseguenti e anche dopo lunga sedimentazione, i suoi quadri che hanno diverse intonazioni tematiche, dallo scorcio naturalistico alla scena di vita cittadina, dall’immobilità pensosa della contemplazione allo scatto dinamico di una capacità di sorriso ironico quando non satirico. Dopo un’adesione convinta a moduli espressionistici, verificabili anche nel ritratto di Giorgio Titz, amico caro e pittore triestino anch’egli, l’artista si muove verso approdi dove la foga straripante del comunicare si acquieta gradatamente in un realismo pacato. Ma l’attenzione incentrata sulla fisionomia dei volti o sulla figura umana si precisa in altre opere eloquenti, come il ritratto di Bergagna del 1956. La drammatica esperienza della prigionia nel campo di concentramento nazista a Muldhorf – Dachau lascia una traccia profonda nella sensibilità dell’autore istriano, che neutralizza a volte la tragicità dell’evento con l’arma di un’ironia sottile e incisiva. Soggiornando a più riprese a Roma e a Milano, ha modo di confrontarsi con la complessità della temperie soprattutto del capoluogo ambrosiano, che è anche centro culturale di prim’ ordine. Pur portato ad apprezzare il fascino delle grandi città, ha un amore esclusivo per Trieste che costituisce da sempre il fulcro della sua ispirazione, il luogo dove la poesia delle cose anche semplici prende corpo in una figurazione della forte impronta evocativa e lirica. Contribuiscono alla qualità sostanziale delle sue immagini la seduzione di certo luminismo chiaroscurale lombardo, rimasto nella sua matrice di fondo, e la lezione di un vecchio maestro. Vittorio Bergagna, dal quale per un certo periodo fu ospitato in studio. L’opera nasce, cresce e si sviluppa su lunghi tempi di maturazione, durante i quali medita ed elabora mentalmente prima di eseguire dipinti che appartengono tutti a una grande volontà di racconto, di confessione aperta alle suggestioni, ai pensieri, ai dati emotivi. Questi scaturiscono nella sua anima dalla relazione con le cose, le persone, il clima, il paesaggio carsico dove si afferma un protagonista primario, la pietra calcarea; poi il fattore atmosferico caratterizzante della città giuliana, la bora, che spazza il cielo e incombe come presenza rituale di un teatro affascinante. L’ambiente fumoso dei caffè, contenitori di un’umanità spicciola, in cui l’artista va a prelevare con straordinaria sintesi l’essenza di una dialettica tra individualità e socializzazione. I molteplici motivi che innervano l’arte di Rosignano sono inscritti in una sensibilità, nella quale momenti di preoccupata partecipazione all’esistente si alternano con spunti gradevoli di sorriso e slanci entusiastici verso la realtà di ogni giorno. In questo autoritratto, nel fatto di rappresentarsi più anziano c’è la prefigurazione di una vecchiaia che l’artista esorcizza con la vivacità intellettuale e la forza di una pittura sempre giovane.

Enzo Santese.

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Il disegno nell’opera di Livio Rosignano

di Enzo Santese

Il complesso di disegni di Livio Rosignano copre un periodo di oltre sessant’anni, diventando in tal modo strumento essenziale per conoscere una personalità artistica che, anche nell’ambito della pittura, elegge questa pratica a moto generatore dell’evento compositivo. Il corpus costituisce un lungo dettagliato scandaglio nel perimetro autobiografico, in cui emergono con chiarezza e si sbalzano con vera tensione plastica alcuni elementi che caratterizzano quell’intreccio indissolubile di motivi umani e artistici, alla base della vocazione dell’autore triestino.

Considerato da molti una disciplina accessoria, di supporto a strategie pittoriche o scultoree, il disegno è in determinati casi la molla propulsiva per processi costruttivi che vi trovano la più diretta ragione creativa. Questo vale in ispecie per Livio Rosignano che, fin dalla giovane età, ha avvertito l’esigenza, prima tutta istintiva, poi codificata gradualmente in una consapevolezza autentica, di fissare la realtà, isolarne taluni elementi costitutivi e trasporla sul foglio in un atto teso a coniugare in bella sintesi realtà e poesia, aprendosi da opera a opera a spunti riflessivi diversi. D’altro canto l’hobby comincia presto a diventare un “intrigo” (1), capace di imbrigliare nelle dinamiche del segno gli aspetti del mondo circostante più consoni alla sua indole. L’obiettivo dell’attenzione inquadra un ambito del quotidiano che, proprio per il fatto di essere confinato solitamente nella marginalità della cronaca oppure nella ripetitività della consuetudine, è assunto da Rosignano come elemento di crescita e centro motore per la distillazione di una poesia, insita nelle cose, nelle persone e nelle vicende che ogni giorno scorrono davanti agli occhi. E’ un modo per essere dentro quel piccolo universo, ritratto sempre non da un occhio che guarda dall’esterno, ma che da dentro assorbe gli umori del reale centellinandoli in porzioni di calda partecipazione. Non è strano che il tutto provenga da una persona schiva e a suo modo introversa; l’artista mostra infatti una capacità visionaria proprio nell’esercizio di quella sottile immaginazione dentro il labirinto di ambienti, di

figure, di oggetti che di fatto appartengono al suo vissuto. Innanzitutto il popolare quartiere di San Giacomo a Trieste, dove risiede da sempre, con i suoi ritmi quotidiani tipici di una brulicante periferia, immediatamente a ridosso del centro cittadino. Poi il mondo delle osterie, dove molte volte il coraggio della parola è istillato dalla compagnia di amici veri o occasionali, che si rapportano tra loro anche sulla liturgia del bere: lo spazio in cui l’allegria meccanica, prodotta dal vino, in ognuno degli avventori si fa splendido pretesto a un’intermittenza del proprio intimo malessere. Per Rosignano il disegno e la pittura, di cui il disegno stesso è fattore fondante insieme al colore, sono la pellicola di un film sugli atteggiamenti degli uomini nelle loro azioni abituali: i camerieri che si muovono in una danza prosaica, adibita alla relazione con un pubblico che socializza sull’auspicio del brindisi o si apparta idealmente nell'”ascolto” del giornale; la sosta pensosa su una panchina, persone con volti scavati dal tempo e trascinati dallo sguardo verso obiettivi indistinti; i pescatori che coccolano le loro reti; la darsena tagliata dalle geometrie costitutive delle barche; le

maternità per nulla eroiche, anzi esaltate nella loro sofferenza da una figurazione sghemba e pietrosa; la semina quale rito concertato con la natura; le vicende di sapore ordinario e popolare rappresentate da lenzuola stese, mute testimoni di una lunga storia di intimità; le progettualità ludiche dei ragazzi; gli autoritratti come pretesti per misurare la propria sudditanza al tempo che avanza inesorabile; i nudi, quali occasioni per celebrare la volumetria degli affetti; il cane che si umanizza. Lo spazio bianco è per Rosignano il luogo dell’idea nuda, della prima epifania della mente che elabora e fantastica. Certi fogli sono ricchi di prospettive molteplici, ma non risultano solo prospettici: scaturiscono dall’impaginazione e dal concerto di linee in movimento, che creano una profondità partendo solitamente da un primo piano. Nella trama del disegno cova spesso la memoria di una notte insonne, un’impronta di fantasmi privati disposti sulla pagina in una sorta di esorcismo, per cui l’oggetto delle proprie paure e dei trasalimenti viene allontanato da sé e installato in una condizione di specularità; davanti alle componenti naturali e umane, l’artista sente prima una necessità imperiosa d’ascolto e poi, immediatamente, di registrazione in una “scrittura” del foglio per lineamenti grafici. otto l’azione della matita. E poi ancora i giardini, le rive, la stazione, il mercato. Talvolta la moltiplicazione indefinita del segno dilata lo spazio e allora l’immagine sta lì ad evocare, prestandosi a una serie nutrita di significati. Si legge con immediatezza nel suo livello letterale, ma reclama un’analisi puntuale per la decifrazione dei simboli alla base dell’opera medesima. La tessitura, il gesto paziente e deciso della mano costruiscono insieme colore, forma, materia dell’opera. Linea e contorno, ombra e luce si giocano il destino di una volumetria, a volte rimossa, a volte appena allusa; infatti l’artista tralascia sovente gli effetti volumetrici per la pura resa di superficie, mossa da ritmi lineari essenziali con decise adiacenze variabili da un’idea ingresiana (2) dello spazio fino all’approccio realistico di George Bellows e Edward Hopper. (3) La riproposizione del mondo non ha mai un’assolutezza oggettiva, distante e impenetrabile nella sua immobilità, ma un discreto e disteso consistere delle cose, nella concretezza della luce, che ne modula leggermente i volumi graduandoli nella definizione delle forme o assorbendoli nel bianco del fondo. L’artista ottiene a matita una scala di grigi talora impercettibile, che si rende evidente nelle accensioni di nero quando il tratto è marcato in sovrapposizione. L’orbita evolutiva di Rosignano arriva a una sintesi tra organismo e struttura, nel senso che la sua azione mira a innestarsi ben dentro la realtà, tenendo acceso il processo squisitamente intellettuale dell’operazione artistica.

Architetta la forma coagulandone i valori costitutivi in gangli riconoscibili, capaci di liberare un’energia centripeta lungo cui si forma l’immagine. In questo senso il rapporto con il foglio bianco è sempre all’insegna di un atteggiamento estraneo all’horror vacui, bensì dentro l’esigenza di governare lo spazio con le leggi di un segno, variabile secondo che si tratti di invenzione, di puro esercizio manuale, studio di filigrana progettuale o divagante fantasticheria originata dall’osservazione del reale. Il movimento delle linee, da nitido e marcato, si fa più scattante e nervoso e rapprende la figura in una sorta di nucleo espansivo, di grumo evolutivo radiante, in cui il guizzo grafico presenta variazioni aritmiche in un unico percorso lineare. L’individuazione di una forma saldamente strutturata nell’orditura grafica a reticoli, condotti con regolarità tissurale oppure con alternanza di addensamenti, avviene per progressiva scoperta del grado di risposta del piano alle sollecitazioni della grafite o del carboncino. Sulla pagina vengono ricomposte suggestioni e dilatazioni fantastiche, puntuali annotazioni fisiche che costituiscono la piattaforma di decollo di un’avventura creativa sempre legata al motivo di partenza, eppur libera di fluttuare in un magma di umori diversi, entro cui è dato rilevare tracce ricorrenti, come la malinconia, il disincanto, la rabbia contenuta in una visione esacerbata. La preziosità e la delicatezza del fraseggio nascono dalla fermezza del segno che è tutt’uno con lo spazio in cui viene accolto. Il tratto che la punta imprime alla superficie al suo primo impatto è una potenzialità di crescita in tutte le direzioni, che si realizza ogni volta in un “unicum” (4) anche se con assonanze molteplici con numerose esperienze simili (ritratti, nudi, paesaggi, scene di ordinaria quotidianità nelle strade, nelle osterie, nei luoghi di lavoro).

Nei lavori vengono miscelati spunti di entusiasmo e momenti di elegia, silenzio eloquente e racconto inesausto, il grigio di una deprimente situazione personale con il fuoco acceso di una prospettiva iscritta nella speranza di futuro, distacco dal mondo e adesione convinta alle cose, accettazione paziente delle diversità e impietosa analisi delle differenze.

Un complesso di polarità opposte convivono nell’ispirazione che, dopo un lungo tirocinio di linguaggio fatto di autentici slanci sperimentali, approda a una capacità di racconto e una magia colloquiale straordinaria: qui la lirica disposizione alle vicende del quotidiano viene registrata come complesso di puri segni del processo esistenziale in divenire. Infatti egli non aggredisce la pagina, ma ne fa una complice dell’evento, nel senso che lo spazio bianco è un alveo generatore di racconto, incanalato nella cifra della poesia. Renzo Vespignani l’aveva definita la “La larva della poesia”(5), quella uscita dal bozzolo di segni finissimi, che una mano sapiente guidata dall’istinto, come nel caso di Livio Rosignano, imprime sulla carta con i riflessi vibranti di un coinvolgimento di coscienza, implicazione a cui è chiamato spesso chi vi si accosti.

2. Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867), considerato punto di riferimento fondamentale per certa concezione classica del disegno.

3. George Bellow (1882-1925) ed Edward Hopper (1882-1967) negli Stati Uniti frequentano con originalità il territorio operativo del realismo; ilprimo affronta il paesaggio con una vibrazione emotiva rivelatrice di forte partecipazione all’esistente; il secondo esprime una marcata sensibilità per ambienti cittadini, cari poi a Livio Rosignano.

4. Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Roma, 1972.

5. Renzo Vespignani, Opera incisa, Franca May Gatto editore, 1982.

I disegni che in questo libro danno una visione completa di sé nel loro sviluppo, lungo tutto l’arco biografico dell’autore, sono diversi nelle scansioni e nei connotati di fondo eppur accomunati dal fragile ma ininterrotto filo d’un profondo senso esistenziale di fronte al quale l’opera assume la fisionomia di un diario, costituito da una miriade di annotazioni private.

Per comprendere appieno l’arte di Livio Rosignano è necessaria una visione sinottica dell’opera grafica e pittorica, fortemente intessute di rimandi reciproci. Il disegno risulta in ogni caso, nella sua consuetudine di esercizio per l’artista, un’operazione davvero magica, catartica, ma nel segno più terragno del termine, di liberazione dalle scorie della fisicità per entrare nella dinamica dell’idea pura, del pensiero che si fa immagine.

Enzo Santese