E’ uscito in questi giorni un libricino, intitolato “Per Rosignano” e firmato da un nostro giovane critico che si sta affermando per la serietà dei propositi e la molteplicità degli interessi: Roberto Damiani.

Il testo, letterariamente pregevole, è impreziosito da sei disegni a penna, figure, esterni, interni, del tipo di quelli che Rosignano viene distribuendo con attenta generosità nelle raccolte di versi dei giovani poeti nostrani, ultimo il volumetto di Graziano Comite, “Addio gabbiano Jonatan”, apparso anch’esso in vetrina in questo scorcio di stagione. Bisogna subito dire quanto affascini, anche sulla scorta di illustri precedenti, questa integrazione del pittore nello scrittore e viceversa, questa sorta di simbiosi; da sola sufficiente, almeno nelle indicazioni più generali, a documentare una natura artistica “rinascimentale”, e cioè non chiusa nella propria specialità, ma aperta e sensibile a tutte le forme dell’arte, ricondotte a un’unica matrice comune. Rosignano non è nuovo a questi travasi. Ricordiamo una sua opera direttamente letteraria, apparsa qualche anno fa nella collana de “Lafanicola” (curata dallo stesso Damiani), in cui da pittore si faceva storico e critico di pittori, offrendo, insieme a una ragguardevole sicurezza di scelte e giudizi, anche un saggio di buona prosa. Ma non è il solo: e basterebbe ricordare, a documento di questa particolare temperie del nostro mondo artistico, oscillante senza sforzo tra figurazione e scrittura, la testimonianza di un altro nostro personaggio, Antonio Guacci, ingegnere, architetto (il Tempio Mariano), pittore, scultore, inventore di forme che, prima di essere plastiche o grafiche, sono sempre simmetrie esattissime e sapienti giochi di forze (le famose “omologie”); il quale, più segretamente, è anche autore d’un diario morale ancora inedito, che con una certa civetteria egli continua a chiamare libretto di lavori o di cantiere. Diceva Slataper (nella citazione di Damiani) che “l’arte ha una sua universalità differente dalla filosofia, ma non minore”, poiché dà una consolazione morale identica a quella. Ebbene è da credere che i nostri artisti siano tutti filosofi, anche quelli che non scrivono (vedi per tutti Marcello Mascherini, abile teorizzatore della propria estetica): che abbiano tutti la consolazione ragionata del loro fare arte. Sono, insomma, ciascuno nel suo limite, uomini che affidano all’estro e al gusto solo una parte della loro commozione, consegnandone l’altra all’attento controllo d’una sempre vigile e severa autocritica.

Manlio Cecovini