Ci dev’essere ancora quella stradina,

quella curva difficile, dove auto,

nella complicata manovra,

andavano a sbattere il muso

in un nodo di ginestre.

Là , tra grovigli di spine e erbe balzane,

ammiccavano i lucidi frutti del rovo.

Contro la luce del mare,

appiattito nell’immensa calura,

lei si ergeva sulla pietra,

vedo il suo gesto, oh come lo vedo!,

– frammento di memoria generoso

ti sono grato

più fermo di una statua e più vivo

di noi due qui, ora,

elegante e giovanilmente proteso,

a coglierne la polpa.

E nelle mani rosse di sugo,

imboccava me,

con occhi tutti di sposa

Caro paesaggio mio,

ricordi quando principiai a farti la corte ?

Con le braccia delle tue creature,

rabbrividiti arbusti,

urlavi aiuto; ed eri solo, solo.

Quanto freddo intorno,

e il fiato mio bastava

per il cavo della mano appena.

Là in fondo, la città,

imbestialita di vento e d’altro,

non conoscevo;

con te solamente parlavo.

Rabbia ed invidia provavo

Se colori e voci d’estate

ti sciupavano – incoscienti –

capigliatura e manto.

Poi mi consolavo e dicevo;

l’inverno torna presto, tanto.

Come liquido amaro

La tua espressione di dolore bevo,

a memoria traccio

il tagliente profilo tuo

nel fumo dei ricordi;

la secchezza delle tue dita sono ossicini

che rubo al cane nel sogno.

Non piangere: di te molto so.

Il pallido viso e la mano magra, dammi.

Riscalda i tuoi occhi, duri,

fissi e disperati, nei miei,

Com’è bella, com’è bella la cittadina di Muggia!

Le strade strette e le botteghe di frutta ricolme!

Nel chiaro mattino uomini escono

al largo, nelle barchette;

ed eccoli già lontani, di celeste avvolti.

Le donne, per una ciarla ferme,

con la sporta al fianco, sono momenti.

Sulle rive del porticciolo, che è un niente,

vecchi  marinai, uomini di mare,

bruciati di acqua e sole, parlano di barche.

Improvvisa dal vaporetto bianco,

una fiumana di gente umile ritorna da Trieste.

Dopo,  la solita tregua vespertina,

e il confidente molleggiar di battane spente.

La sera di velluto ha lumi in mar e stelle in cielo.

Com’è bella la cittadina di Muggia!

Dieci volte di più,

tra me e me, dipano il pensier

che tengo nel cuore e nella mente;

ma la parola che ora l’esprime,

solo in parte tu l’intendi;

è come opaca lastra dietro cui

in movimento sono immagini

che chiare e ferme tu non vedi.

Questi, tra noi, sono diaframmi,

insidie rovinose di tutti i giorni.

che ardono di febbre

E’ domenica;

Sto, sul davanzale della finestra, abbandonato,

ho la barba lunga e non mi rado,

oltre le griglie, per la strada

c’è sempre qualcosa che distrae.

Sbadiglio e penso che mi raderò.

Intanto il sole che batte sulla casa di fronte

Filtra in ogni angolo e scopre una figura

Snella, che si tocca le labbra e rassetta la veste.

E’ lo specchio che abbaglia,

di certo si prepara per un incontro,

sparisce poi torna a stendere una bianca tovaglia.

Non ho programmi:

dalla stanza, leggiucchio un articolo di giornale,

torno alla finestra e penso che dovrò radermi la barba.

E’ domenica.

E’ finita la guerra

E nella città,

al centro e nei viali,

si spande gente lieta.

La sera poi,

nei bar e caffè

un gran tramestio di folla eccitata,

smaniosa di rivincita.

Donne belle attorno ai tavoli

Brillano negli occhi e nel sorriso

E con agili e sottili dita

Nella notte profumata tracciano

Segni di desiderio.

Ero seduto nel vano della finestra

E ascoltavo i rumori della strada,

o forse,

in qualche vaghezza perduto.

Mi sorprese mia madre

E disse che stavo come i vecchi.

Ecco , fù così , che le mie spalle

Un insolito e subitaneo peso

Avvertirono;

che non conoscevo

La compagnia di prigionieri

A stento marcia nel bosco

Risciacquato dalla pioggia

E vergine nel silenzio.

Nel cielo chiaro

Nessun rumor rintrona

Solo – come aghi di pino –

Puntuto

L’eco del nostro dolor.

Filtra in noi desideri caldi

La canzone cantata dal mare

Nel meriggio che che mi delude

Se non soffro d’amor.

Spinge il suo suono come l’onde

La spuma pigra, che srotola sui sassi

e lussuriosa s’arrischia

tra le gambe divaricate delle bagnanti,

incendiate dal sole e d’altro

 Fermo nel campo

Per un attimo di tregua

Il contadino; la zappa

Gli è di sostegno al fianco

Mentre insegue un frullar d’ali,

col capo appena.

Ora uno sputo nelle mani caccia,

e vibrar riprende

colpi robusti

che rintronano d’intorno, e avanti così,

fin che dura il giorno.

La vision della ferace campagna,

la lezione della natura

è il suo conforto.

Ruvido un poco,

ma se passiam d’accanto

subito ti dà il buongiorno.

Della sua terra parla,

e dell’uva dice, con gli occhi ridenti,

che quest’anno è bella,

è bella come la luce

Figli di case rabberciate,

di colore stracco,

dove Ivo ama Rina è scritto,

io vi conosco!

Donne dal viso pesto,

uno straccio stendono alla corda,

e con un resto di giovinezza

trovano il fiato per una canzone.

Sotto,  i bimbi,

nel cortile metri due per due,

strillano come uccellacci.

Gli uomini imprecano

E sputano sul magro salario;

hanno l’incerto lavoro e l’osteria.

Di più non immaginano per sé

E per i propri figli.

E le loro giornate,

scorrono via,

così , senza scopo.

Il giovane è partito per la pineta.

Le sue membra riposano

Nel verde del bosco,

affonda l’occhio stanco

nel cielo tutto azzurro.

Quando c’è il vento respira profumi lontani

E ricordi gli increspano la fronte.

Il presentimento di una immatura fine,

aureolata di malinconia,

lo scuote con violento rossore

alle orecchie, e sulle gote.

Riposati ragazzo nella pineta,

nel verde senza tempo,

e che il tuo occhio sia sereno.

La donna sorride inquieta

E scopre le gengive rosse;

ha spolpato il frutto con morso avido,

e il succo che ne esce,

improvviso,

fa il grande salto,

dal mento al petto ansante;

da popolana si pulisce le mani sui fianchi

e s’avvia scalza verso il mar.

A mezz’aria un gesto,

uno sguardo come per un invito

La giovinetta s’erge sui piedi nudi

E tra le mani butta il suo richiamo

Che solo il grande vuoto raccoglie;

si dispera e s’abbandona a l’erbe,

lacrime calde dilatano macchia sulla pietra.

Perché piangi ?

La mia voce le entra nel cuore.

Si ridesta ed ha gli occhi chiari del cielo.

La sera ferma di vento

Ha voce di stoviglie

Nel giardino,

e fischi di treni lontani.

Tiepida e molle

Induce a pallidi pensier.

Oltre ramaglie nere

Pezzetti di cielo languono,

e quando una stella

insinua tremula luce,

sono al gelato coi mirtilli.

L’erbe gialle

Divorate dall’implacabile sole

Danzavano lente:

un venticello vago

le moveva a stento.

Io ero lì

E capivo il ( loro ) tormento.

Andavo solo

Per lontane campagne

Sole anch’esse.

Pochi fiori tra l’erbe

E una gran voglia di piangere.

Tornavo a casa stanco

E mia madre preoccupata

A dirmi:

hai gli occhi sbattuti

sei in faccia

tutto bianco.

La serata è stata bella davvero,

gente cara e cordiale, eccellente la cena,

e il vino scorreva.

Alle dame brillavano gli occhi

Non meno le loro leggiadre vesti,

e oggetti preziosi, scintillanti,

altrove e sui caminetti,

piante e ornamenti perfetti.

No, non si può

Muovere appunto alcuno

Ai gentili anfitrioni.

Quando furono a casa però,

sul divano per l’ultima sigaretta, lui disse;

“ tutto è stato bello, tanto,

ma che un’altra volta,

non ci invitino, sono stanco.

Sono un orso, lo sai,

non vorrei in qualche sgarberia

essere incorso.

Epoi quell’inchino,

a me plebeo, uomo di cose vere,

mi rende meschino.

Lassù, tra rovi e fragili arbusti,

nei campielli serrati da muretti a secco,

danzano ancora pallide erbe

ai caldi respiri dell’estate?

Ci sono ancora quelle creature,

di luce gialla, care,

che discostavo , per non calpestare?

Mi dicono che siete sepolte

Sotto case e monumenti

E che più non rabbrividite ai venti.

Le ore spengono il giorno

Che la sera fa triste.

E’ novembre

E di febbre e di malinconia

Il sangue mi si accende.

Nella cucina fredda

C’è mia madre

Che nella poca luce

Canticchiando

Rammenda e cuce

Nel giardino del ristorante,

la sera, ferma di vento,

ha voce di stoviglie

e rauchi fischi di treni  lontani .

Tiepida e molle

Induce a pallidi pensieri.

Noia, malinconia ?

Adesso , oltre ramaglie nere

Pezzetti di cielo languono,

e quando una stella insinua

tremula luce, e una brezza leggera

si leva alle spalle

sono al gelato coi mirtilli.

Per una  breve uscita

Sul verde appena nato

In cerca di gialle odorose primule

Vanno bambinelli

Attorno ai fossi

Sparpagliati in gara gentile

Di chi più  fiori raccoglie d’aprile.

I genitori li sorvegliano, svagati.

Intanto repentino si dilata un grido:

laggiù, guardate laggiù, lontano,

quanti fiori grandi si muovono al vento.

Dove ? Tutti a inseguir ,

con inquieti occhi la mano.

Ma no, ma no, la nota triste e gioiosa

Viene dai bimbi,

bimbi dell’orfanotrofio ,con grembiulini rosa.

Per una  breve uscita

Sul verde appena nato

In cerca di gialle odorose primule

Vanno bambinelli attorno ai fossi

Sparpagliati in gara gentile

Di chi più  fiori raccoglie d’aprile.

I genitori li sorvegliano, svagati.

Intanto repentino si dilata un grido:

laggiù, guardate laggiù, lontano,

quanti fiori grandi si muovono al vento.

Dove ? Tutti a inseguir ,

con inquieti occhi la mano.

Ma no, ma no,la nota triste e gioiosa

Viene dai bimbi,

bimbi dell’orfanotrofio,con grembiulini rosa.

Oggi ho visto il porto.

Era silenzioso.

L’acqua compatta, immobile.

Sulle rive, attorno alle barche

per un danno di secca,

tutti intenti vecchi pescatori

nel gran gioco giostravano;

con un pennello le lisciavano,

e di stoppa sui fianchi le rimpinzavano.

Tra loro non parole chiare,

ma un biascicare.

Pure gli occhi la propria parte avevano,

chè lo sguardo tradiva innamoramento.

Per costoro, come per gli altri,tanti,

saper la barca pronta e luccicante

per un giretto nel golfo è importante.

 

Quanti giovani felici

Per la campagna fiorita.

Scendevano il monte correndo

E offrivano il petto al vento.

Cantavano le cicale nascoste,

ed io a cercarle invano.

Intanto il sole bruciava,

ed io ero solo, solo,

e morivo di malinconia.

Il mio desiderio d’amore

Bruciava come il sole.

Ero fermo sull’accecante pietrame

Di un muro distrutto.

E la campagna assieme a me

Grida il suo tormento.

Io ero con lei, con le cicale,

con il contadino; gridiamo tutti,in coro,

che qui si muore.

Questo luogo  è bello,

vi ritma la vita.

Le fabbriche alzano i camini

E lo stridio del ferro.

Là intorno giostra le fiamme,

fuoco sul nudo dorso degli uomini,

neri come pece,

concitate parole, comandi,

un susseguirsi di gesti,

movimenti concatenati,

intelligenti,

niente soste.

Solo uno sguardo fugace

Alla gentile figurina;

L’impiegata tra le dita sottili

Reca vezzosi ogli colorati.

Passa via in un baleno,

ma basta questo niente

perché imprechino

al loro destino

tanto cretino.

Rincaso in una brutta notte,

di freddo inverno;

quasi alla porta, in piedi,

in uno scialle di lana

la moglie m’aspetta.

Tremando mi dice:

Ho tanta paura di starmene sola in casa;

nel letto vuoto non m’addormento,

le imposte sbattono,

sui muri urla il vento

e vibra tutto.

E appena una settimana fa

– bene lo sai –

abbiamo avuto un lutto;

e di là, sul comodino

mia madre, pare,

mi guardi entro le cornici quadre.

Sale le scale buie, la femmina,

con il petto affannoso

e il labbro unto d’amor.

Sale in fretta, la femmina,

le sue gambe guizzano via

fresche e potenti

come pesci argentei dalla man del pescator.

Nel mio lettino si distende nuda

E sorride col rosa del seno.

Pudica, il suo  corpo trema

Entro linee che io voglio fermar.

Stasera piove forte, diritto,

proprio una bella pioggia,

senza infingimenti,

io e te sul portone

a contar luci rosse

che scappano via,

e non sono stelle.

Io e te a parlar di donne,

con brividi lungo la schiena.

Mille ombrelli s’aprono

Come per sortilegio

E cento pozzanghere

Il passo ostacolano.

Siamo ancora lì, nel portone buio.

Le lenti tue a ogni macchina che passa

Sfavillano, e di tanto in tanto,

le aggiusti sul naso.

 

Un tempo si rivelavano,

ai desideri miei d’amore,

ragazze giovani nell’ombrosa stanza

che nude  alla pelle ghermivo.

Codesti di giovinetto sogni

Nati da incerti e confusi momenti,

non concedevano ai sensi tregua.

Ora la giovane, candida,

luminosa e alta più che nel sogno,

mi è qui davanti;

siede sullo sgabello,

per una posa; d’intorno si guarda,

piuttosto sciocca, e qualcosa mastica nella bocca,

rossa troppo, però eccitante.

Come lei – ormai ne ho viste alquante.

Vaghe dolci musiche

Che scacciar non sai

Certi giorni ti giungono

Da chissà dove, fin dal mattino,

e sempre ti danzano all’orecchio

impertinenti.

T’assale malinconia allor

E soffri con voluttà.

L’intatto purissimo sentir

Si va sciupando.

L’importuno quotidiano

A poco a poco

Prende il sopravento,

ti sbugiarda,

e febbrilmente ti ricarica

di amaro , amaro.